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La collina di conchiglie che sorge nel bel mezzo del mare

Esiste un lembo di terra, dall’altra parte del mondo, fatto di calcare e corallo, di bellezza e suggestione. Un vero e proprio paradiso terrestre che non si può descrivere, ma solo vivere. Il suo nome è Anegata ed è l’isola più singolare dell’arcipelago delle Isole Vergini britanniche.

Situata a circa 24 chilometri dalla più celebre Virgin Gorda, e separata da Sombrero delle Anguille dallo stretto del Mar dei Caraibi, Anegada è la più settentrionale dell’arcipelago. La sua estensione, che misura circa 39 chilometri quadrati, la rende la seconda isola più grande delle Isole Vergini Britanniche.

I motivi per visitarla sono tantissimi, tra questi troviamo le spiagge bianche e paradisiache che affacciano direttamente sulla più lunga barriera corallina dei Caraibi e una biodiversità incredibile che conta oltre 300 esemplari vegetali. Ma non è tutto perché proprio qui è possibile raggiungere e ammirare una delle sculture naturali più particolari del mondo: una collina di conchiglie che sorge nel bel mezzo del mare.

Un paradiso terrestre che si chiama Anegada

Il nostro viaggio di oggi ci conduce alla scoperta di un eden terrestre, quello che porta il nome di Isole Vergini Britanniche. Un arcipelago unico, dal fascino indescrivibile, dove la natura incontaminata regna sovrana.

Le isole, alcune delle quali disabitate, ospitano parchi nazionali e aree protette che preservano l’immenso patrimonio naturalistico dell’intero territorio di cui fanno parte il mare, la barriera corallina, i reperti e gli habitat naturali.

Tra le isole più affascinanti e meno conosciute dell’arcipelago troviamo Anegada, un vero e proprio paradiso per gli amanti della natura. A differenza delle altre, quest’isola non ha origini vulcaniche e si presenta completamente pianeggiante.

È fatta di calcare e corallo, di lunghe spiagge di sabbia bianca e di natura lussureggiante. Anegada, inoltre, si affaccia sulla Horseshoe Reef, che con i suoi 29 chilometri si è guadagnata il primato di barriera corallina più lunga dei Caraibi, nonché la quarta più lunga del mondo.

Tantissimi i relitti che si celano negli abissi del mare, quelli che è possibile scoprire attraverso immersioni e snorkeling. Altrettanti gli esemplari floristici e faunistici da ammirare. L’isola, infatti, è diventata la casa di numerose colonie di uccelli marini, se ne contano circa 100 specie diverse, nonché luogo di nidificazione delle tartarughe marine.

Anegada è un gioiello solitario. L’isola è popolata da appena 200 anime che vivono nell’unico insediamento del territorio: The Settlement. Raggiungerla, e visitarla, vuol dire concedersi un’esperienza unica a stretto contatto con la natura.

Ma c’è un altro motivo per cui vale la pena trascorrere del tempo in questo paradiso terrestre. Anegada, infatti, ospita una scultura naturale davvero unica e bizzarra. Si tratta di Conch Mound, una duna che emerge in mezzo al mare, una collina formata da migliaia di conchiglie colorate.

Conch Mounds, una collina di conchiglie in un paradiso terrestre

Fonte: The British Virgin Islands Tourist Board & Film Commission

Conch Mounds, una collina di conchiglie in un paradiso terrestre

Conch Mounds: la collina di conchiglie che emerge dal mare

La solitaria e suggestiva Anegada, habitat di numerose specie viventi nonché microcosmo delle meraviglia, ospita una scultura affascinante e unica nel suo genere che prende il nome di Conch Mounds. A guardarlo da lontano, questo massiccio solido e colorato, può essere scambiato per una grande duna di sabbia che emerge dal mare. In realtà di tratta di una collina creata completamente da conchiglie.

Situato al largo della costa, nei pressi dell’estremità orientale, questo bizzarro rilievo ha a che fare con le tradizioni e la cultura del luogo. La pratica di adunare conchiglie, fino a creare degli enormi cumuli, è legata agli indigeni che popolavano Anegada.

L’eredità è stata raccolta e perpetuata nei secoli, e da oltre 200 anni i pescatori conservano le conchiglie proprio come facevo i loro antenati. Il risultato? Una scultura natura che sorge in mezzo al mare e che incanta.

Conch Mounds, Anegada

Fonte: The British Virgin Islands Tourist Board & Film Commission

Conch Mounds, Anegada
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Fiume montagna Perù Posti incredibili Sud America Viaggi

Il fiume rosso porpora che attraversa le montagne del Perù

Potrebbe fare un po’ impressione, è vero: vedere scorrere un fiume rosso è un’esperienza abbastanza particolare, specie considerando che tendiamo ad associare questo colore al sangue. Invece, il Palquella Pucamayu non è altro che un meraviglioso capolavoro della natura, che nulla ha a che fare né con eventuali immagini violente né con chissà quale strano tipo di piaga o magia. E in realtà, dal vivo si ha la sensazione di assistere a uno spettacolo ultraterreno.

Il Palquella Pucamayu e il suo colore

Il fiume, che si trova a Cusco, in Perù, nell’ultimo anno ha cominciato a spopolare sui social media ed è per questo che sempre più persone si sono chieste a cosa sia dovuto il suo particolare colore. Innanzitutto, occorre precisare che questo corso d’acqua diventa rosso per circa 5 chilometri, prima di combinarsi con altri torrenti, ruscelli e fiumi e diluirsi, passando da toni scarlatti a toni rosa pastello, prima di perdere completamente questa tonalità.

Dettaglio delle acque del fiume Palquella Pucamayu in Perù

Fonte: iStock

Dettaglio delle acque del fiume Palquella Pucamayu in Perù

Tutto ciò succede per una serie di fattori: il deflusso della pioggia dalla vicina Palcoyo Rainbow Mountain, già di per se caratterizzata da una serie di argille dalle tonalità intense, la stratificazione delle rocce che portano dalla montagna al fiume, che prevedono una serie di minerali di colori vibranti e, infine, la presenza di arenaria rossa ricca di ossido di ferro sul letto del fiume. L’intensità del colore dipende anche dalla quantità di precipitazioni: più acqua cadrà dal cielo, più il risultato sarà sfumato.

Un fiume che cambia colore

Dato che comunque a giocare il ruolo decisivo nel colore del fiume è la pioggia, è corretto dire che il Fiume Rosso del Perù è visibile solo durante i mesi della stagione delle piogge. Durante il resto dell’anno il livello dell’acqua è molto più basso e non ci sono particolari apporti provenienti dalla Palcoyo Rainbow Mountain. Ciò significa che il fiume cambia colore in base alla stagione, ma se state pensando di trovarlo limpido e trasparente, vi sbagliate.

Il colpo d’occhio del Palquella Pucamayu quando non è rosso è un po’ deludente: ha un colore marrone intenso, e l’acqua è fangosa e limacciosa, sempre per via della forte presenza di argille e terriccio che si mescolano con l’acqua. La buona notizia è che la stagione delle piogge in Perù è abbastanza lunga: va da aprile a dicembre e vengono organizzate molte visite guidate, cui è possibile unirsi in tutta sicurezza e tranquillità.

Come visitare il Fiume Rosso

Dunque, se state pianificando una vacanza in Perù durante il periodo indicato vorrete sicuramente sapere come osservare il fiume durante la sua fase rossa. Bene, allora dovete sapere che questo corso d’acqua si trova precisamente nella provincia di Canchis e che il modo migliore per raggiungerlo è fare tappa nella già citata città di Cusco. Il Palquella Pucamayu si trova infatti a circa tre ore dalla città e proprio da lì partono diverse escursioni, che per altro permettono anche di raggiungere la cima della Palcoyo Rainbow Mountain.

Fiume Palquella Pucamayu, Perù

Fonte: iStock

Scorcio del paesaggio del fiume Palquella Pucamayu

Da questa posizione privilegiata è possibile ammirare il fiume mentre attraversa i prati verdi che caratterizzano l’area. Naturalmente, insieme alle guide, ci si può anche avvicinare al fiume per scattare qualche foto. Se avete in mente di cimentarvi nell’impresa, non dimenticate di indossare l’abbigliamento adeguato: giacche impermeabili, felpe pesanti per via del fresco e scarpe da trekking.

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White Island: come visitare l’isola proibita

Un’isola proibita, un luogo ammaliante che è anche protagonista di una leggenda, dove l’uomo non può vivere ma dove può cercare di arrivare, non senza rischi. No, non è la location inventata di un film o di un libro d’avventura, ma un posto reale: è White Island, un atollo che si trova a 48 chilometri dall’Isola del Nord della Nuova Zelanda e che si distingue per essere un’isola vulcanica attiva, bellissima ma anche molto pericolosa.

White Island tra leggenda e natura

Come dicevamo, White Island è protagonista di una leggenda, che dice che molto tempo fa il sacerdote e gran maestro Maori Ngātoro-i-rangi, rinomato per le sue grandi capacità di navigatore, si fosse perso mentre si cimentava in un’impresa lontana dalle sue amate acque, ovvero la scalata del monte Tongariro, che stava svolgendo in pieno inverno. Pur di ritrovare la strada, Ngātoro-i-rangi avrebbe così evocato il fuoco sacro degli antenati. Per arrivare a lui, le fiamme avrebbero spaccato la crosta terrestre, dando vita all’inquieta isola vulcanica.

White Island vista dal mare

In realtà, White Island è la cima emersa di un enorme vulcano sottomarino che si poggia sul fondale delle acque neozelandesi a circa 1.600 m di profondità. L’isola è stata a lungo sfruttata come giacimento di zolfo e diverse miniere erano state aperte sulla sua superficie, ma dalla metà del XX secolo lo sfruttamento minerario è stato accantonato. Adesso, le principali attività sull’isola sono la ricerca scientifica e il turismo.

Come visitare White Island

Il turismo, appunto: l’isola è in effetti visitabile, ma non è un’impresa facile. In primis perché al contrario di ciò che avviene, per esempio, sull’isola italiana di Vulcano, praticamente non è quasi mai possibile sbarcare. Occorre parlare con gli agenti e i tour operator neozelandesi per verificare la fattibilità della visita, che può svolgersi secondo tre modalità: la prima, più comune, è la circumnavigazione, possibile grazie a dei tour organizzati su apposite barche, che tengono i visitatori a distanza di sicurezza pur permettendo loro di osservare insenature e calette dai colori particolari.

Uno scorcio di White Island

La seconda è il sorvolo. A un costo decisamente più elevato, piccoli gruppi possono affittare un elicottero con un pilota qualificato che volerà sopra l’isola, ben distante da eventuali fumi, e permetterà di osservarla dall’alto. Infine, ci sono le escursioni: molto più rare ed estremamente costose, vengono riservate a piccolissimi gruppi di visitatori che vengono fatti sbarcare e vengono poi accompagnati da una guida qualificata lungo un percorso già stabilito.

Le visite, l’attrezzatura e l’ambiente ostile

Tutt’e tre le modalità di visita sono vincolate all’attività vulcanica di White Island, perennemente sotto controllo da parte degli esperti. Va da sé che in condizioni avverse o ai primi segnali anche di micro-eruzioni, qualsiasi tipo di escursione o di viaggio viene prontamente annullato. Quando però si riesce a sbarcare, tutti i visitatori sono obbligati a seguire il percorso, contraddistinto da un sentiero ben segnalato che arriva fino al cratere sommitale passando per aree ricche di fumarole.

Spiaggia vulcanica a White Island

Caschetti, giacche a vento e impermeabili, scarpe da trekking e maschere antigas (sì, proprio così) sono l’attrezzatura senza la quale non è neanche possibile sbarcare. L’ambiente è ostile, seppur incredibilmente suggestivo: laghi caldi e fumanti si distendono per diversi metri e il verde incontra fiumi di magma pietrificato mentre fumi di zolfo si alzano dalle rocce e punteggiano aree incolte e selvagge. Le spiagge sono a dir poco bellissime, incontaminate e trasparenti, ma, prevedibilmente, non è consentito fare il bagno. White Island, dunque, non è esattamente un’isola a portata di turista medio, ma non c’è dubbio che sia la meta ideale per gli amanti dei paesaggi vulcanici.

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Era un rifugio antiaereo: ora è un lago incastonato in una caverna multicolor

Immaginate di entrare all’interno di una grotta. Fatto? Beh, probabilmente la vostra mente vi sta suggerendo immagini sicuramente belle ma altrettanto sicuramente piuttosto scure, con rocce nude e grigie a circondarvi, in un trionfo di asettica semplicità. Bene, adesso accantonate questa fantasia e provate a figurarvi, invece, una caverna ricca di colori, con un lago fresco e brillante al centro a riflettere ogni sfumatura e a renderla ancora più intensa: avrete un’idea di quella che è la Reed Flute Cave.

La Reed Flute Cave e la sua formazione

Questa particolarissima caverna si trova in Cina, precisamente nella città di Guilin. Per chi non lo sapesse, questa città è molto famosa per il suo paesaggio punteggiato da una serie di colline calcaree carsiche, ossia quel tipo di formazioni che si plasmano nel tempo grazie al modellamento superficiale e sotterraneo delle acque. A Guilin ci sono ben due laghi naturali e molto ampi che hanno contribuito a modificare l’ambiente circostante e a creare una topografia carsica variegata e interessante.

L'interno della Reed Flute Cave

Uno degli esempi più affascinanti è proprio la Reed Flute Cave, la cui formazione sembra risalire a circa 180 milioni di anni fa, come risultato dell’erosione idrica che ha consumato lo strato di roccia calcarea sulla superficie terrestre. Erodendo questi strati, l’acqua ha creato delle crepe e con il passare del tempo il suo filtraggio e il suo passaggio ha creato varie stalattiti e stalagmiti intrecciate e imponenti.

Il nome, il ruolo e la fama della caverna

Ma come mai questa grotta è diventata così speciale? È presto detto: durante la seconda guerra mondiale si è trasformata in uno dei luoghi più sicuri dove nascondersi durante i bombardamenti. Circondata dalla pace e dal silenzio, ha preso il nome dalle canne di bambù che con il vento si trasformavano (e si trasformano) in “flauti”, in grado di suonare in modo dolce e rasserenante. L’ingresso alla caverna era per altro perfettamente mimetizzato, di conseguenza la caverna è stata in grado di accogliere centinaia di persone senza pericoli in quei tempi funesti e disastrosi.

Laghetto della Reed Flute Cave

Visitandola sia per necessità che, una volta finita la guerra, semplicemente per ammirarne bellezza e complessità, diverse persone hanno cominciato inoltre ad attribuire alle diverse formazioni della grotta dei nomi particolari, che sono diventati leggendari: un’alta formazione rilucente per via delle brillanti tracce calcaree è stata ribattezzata Palazzo di Cristallo, mentre un’area più raccolta con stalattiti acuminate è stata ribattezzata Pagoda del Drago.

A un certo punto, c’è chi ha iniziato a sostenere che una delle delle stalattiti giganti della Pagoda del Drago fosse la lancia magica di un Re citato nel classico buddista cinese, Viaggio in Occidente: inutile dire che grazie a tutte queste suggestioni, la fama della Reed Flute Cave ha fatto il giro del mondo.

L’installazione luminosa

Dagli anni Sessanta in poi, all’interno della grotta è stato installato un sistema di illuminazione artificiale che difficilmente resta sempre uguale: se prima venivano usate luci e lampadine statiche di ogni colore dell’arcobaleno, oggi la caverna conta su una serie di luci led RGBW (che cambiano dunque colore) in grado di cambiare drasticamente l’atmosfera.

Le stalattiti e le formazioni della Reed Flute Cave

Se state pensando di visitarla, tenete presente che la caverna è lunga ben 240 metri ed è divisa, come abbiamo già accennato, in una serie di sezioni: per visitarla dunque servono almeno due ore. La buona notizia è che è aperta tutti i giorni, tutto l’anno, dalle 8.00 alle 17.30 e difficilmente è affollata, a meno che non la si visiti durante le festività nazionali. È facilmente raggiungibile dal centro di Guilin ed è adatta a tutti, compresi bambini e anziani, ma è consigliato indossare una felpa o un maglione per via del fresco e dell’umidità.

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King Edward Point, la capitale meno popolata al mondo

Immaginando una capitale, il primo pensiero che viene in mente è quello di una vivace metropoli, migliaia o milioni di abitanti, traffico, palazzi e innumerevoli attrattive.

E se, invece, esistesse una capitale che conta una decina di abitanti, un piccolo gruppo di case e, attorno, soltanto natura selvaggia a perdita d’occhio?

Non è fantasia ma realtà. Andiamo a conoscere meglio King Edward Point, la capitale meno popolata al mondo.

King Edward Point, la capitale quasi disabitata

È uno dei luoghi più remoti del pianeta, una terra frastagliata di ghiacciai, un paradiso per la fauna selvatica abbracciato da acque gelide dove, durante l’inverno, la temperatura raggiunge i -15 gradi e soltanto dieci persone hanno il coraggio di restare.

King Edward Point, sulla costa nord-orientale dell’Isola della Georgia del Sud, a circa 1400 chilometri a sud-est delle Isole Falkland, è una stazione di ricerca permanente del British Antarctic Survey, la capitale del territorio britannico d’oltremare della Georgia del Sud e delle Isole Sandwich nonché la “più piccola” per numero di abitanti, all’ingresso di King Edward Cove, una raccolta baia della Cumberland East Bay, accessibile soltanto in barca.

Dal 1909, è la residenza di un magistrato britannico che amministra l’Isola.

In estate, la stazione ospita dalle 20 alle 40 persone, mentre in inverno, come già accennato, sono solamente dieci le persone che osano rimanere al cospetto di un clima davvero rigido e proibitivo.

Tre sono gli ufficiali governativi assunti per vivere e lavorare, a rotazione sovrapposta, presso la stazione mentre il personale del British Antarctic Survey è impiegato a King Edward Point con contratti di 17 mesi: tra di loro vi sono uno scienziato della pesca, un assistente zoologico sul campo, per le foche e i pinguini, due ufficiali di navigazione, un medico, un capostazione e due tecnici, sia elettricisti che meccanici.

L’obiettivo principale delle ricerche è quello di fornire consulenza scientifica per assistere le aree marine protette ma l’attenzione degli addetti ai lavori è rivolta anche alla gestione sostenibile della pesca commerciale intorno all’Isola della Georgia del Sud.

Inoltre, il team ha pubblicato una serie di “progetti” di Gentoo Penguin Tracking per comprendere l’impatto della plastica sulle popolazioni di pinguini.

La vita a King Edward Point, tra il tempo che scorre lento e temperature invernali estreme

È una vita singolare quella che conducono le poche decine di abitanti di King Edward Point, alle prese con un clima rigido, la possibilità di neve in qualunque momento e le temperature che oscillano dai -15 gradi dell’inverno ai 20 gradi dell’estate (anche se l’isola è completamente ricoperta dal candido manto soltanto da maggio a ottobre).

Ognuno a turno cucina, pulisce e prepara il pane, mentre il sabato sera è il momento di un tradizionale pasto formale di tre portate.

Oltre al lavoro e alla formazione in navigazione, ricerca, salvataggio e primo soccorso, c’è anche spazio per l’intrattenimento con attività organizzate in autonomia quali risalite in collina, sci, mezza maratona, regate di modellini di yacht, serate di cinema e un ingresso annuale al Festival cinematografico dell’Antartide.

Accanto ai pochi abitanti, vivono numerosi animali selvatici come pinguini gentoo, pinguini reali, procellarie giganti, elefanti marini, albatros, foche di quattro differenti specie e uccelli nidificanti di 30 specie diverse.

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Non lasciatevi ingannare dalla sua bellezza: questo giardino è letale

Quando l’uomo incontra la natura, la rispetta e se ne prende cura, nascono sempre cose grandiose, e i nostri viaggi lo confermano. È il caso dei giardini lussureggianti, degli orti botanici e dei parchi fioriti, di tutti quei luoghi dove, grazie alla presenza umana, Madre Natura ha potuto crescere e prosperare, e allestire scenografie spettacolari.

Vere e proprie attrazioni turistiche che negli anni hanno raccolto l’entusiasmo e la curiosità di migliaia di viaggiatori che scelgono di mettersi in cammino per toccare con mano la bellezza che appartiene al mondo che abitiamo. Alcune sono così famose che non hanno bisogno di presentazioni, altre sono sconosciute al turismo di massa, ma non per questo meno straordinarie.

E poi c’è il Poison Garden, un piccolo brolo incastonato nel complesso dei giardini che si snodano intorno al castello di Alnwick, che appare agli occhi di chi guarda come un microcosmo delle meraviglie fatto di piante verdeggianti e paesaggi lussureggianti. Ma non lasciatevi ingannare da tutta questa bellezza: il giardino è letale.

Poison Garden: il giardino dei veleni

Il nostro viaggio di oggi ci conduce ad Alnwick, una piccola cittadina del nord dell’Inghilterra conosciuta soprattutto per il suo castello e per quel complesso di giardini formali che si snodano tutto intorno. La dimora, negli anni, è stata letteralmente presa d’assalto da tutti gli appassionati di cineturismo dato che è stata utilizzata come scenografia nella saga cinematografica di Harry Potter ed è apparsa anche nella quinta stagione di Downton Abbey.

Attorno al castello, poi, per volontà della duchessa di Northumberland è stato realizzato uno splendido giardino, l’Alnwick Garden, che ospita migliaia di esemplari vegetali nonché la serra più grande del mondo. Per questi motivi, il complesso si è trasformato in una delle più popolari attrazioni dell’Inghilterra vantando ogni anno migliaia di turisti provenienti da ogni parte del mondo.

Ma c’è un altro motivo per raggiungere il castello di Alnwick e il suo parco, ed è dato dalla presenza di un piccolo giardino verdeggiante la cui bellezza cela un segreto letale. Il Poison Garden, infatti, è considerato il giardino più velenoso del mondo. Al suo interno ci sono centinaia di piante letali.

Il giardino dei veleni

Fonte: phil wilkinson/Alamy/IPA

Il giardino dei veleni

L’orto botanico più pericoloso del mondo

Se è vero che l’apparenza inganna, è altrettanto vero che quei due teschi riposti sul grande cancello di ferro nero all’ingresso del Poison Garden – con tanto di avviso sul pericolo di morte – non lasciano spazio a fraintendimenti. Il rischio c’è ed è reale, perché le piante ospitate all’interno di questo orto botanico sono tutte letali. Non è un caso che il Poison Garden sia considerato il giardino più pericoloso del mondo.

Qui sono coltivate, conservate e protette alcune delle più importanti e rare specie vegetali velenose, tra i quali la cicuta, la belladonna e la noce vomica. Piante tossiche scelte accuratamente dalla duchessa di Northumberland che desiderava per il suo castello un giardino unico e uguale a nessun altro.

Dalla sua inaugurazione, avvenuta nel 2004, il Poison Garden ha attirato l’attenzione di migliaia di persone provenienti da ogni parte del mondo. Entrando al suo interno è possibile ammirare le piante velenose, a debita distanza di sicurezza, e scoprire quali sono gli effetti nocivi di questi esemplari, e quali le conseguenze per l’uomo. Un vero e proprio percorso didattico e formativo dal fascino indiscusso.

I più coraggiosi possono entrare all’interno del giardino e scoprire la sua storia, rigorosamente accompagnati da una guida. I tour si svolgono ogni 30 minuti durante l’orario di apertura dell’Alnwick Garden.

L'orto botanico più pericoloso del mondo

Fonte: itdarbs/Alamy/IPA

L’orto botanico più pericoloso del mondo
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Questi aerei sorvolano (e sfiorano) una spiaggia caraibica

Quando parliamo di paradisi terrestri non possiamo non pensare a quelle distese di sabbia bianca e fina bagnate da un mare azzurro e cristallino. A quella tranquillità solitaria e quasi mistica, interrotta solo dai suoni della natura, che caratterizza in maniera straordinaria tutte quelle destinazioni che da sempre capeggiano le nostre travel wish list. Eden, questi, che per forme, lineamenti e colori sembrano quasi finti, ma che invece sono reali e raggiungibili con un volo aereo.

Ed è proprio su un areo che vogliamo viaggiare insieme a voi oggi, per raggiungere un luogo davvero incredibile dove i sogni si trasformano in realtà. La nostra destinazione è Sint Maarten, un Paese appartenente al Regno dei Paesi Bassi e situato a sud del Mare Caraibico.

Proprio qui, tra visioni mozzafiato e scorci di immensa bellezza, è possibile raggiungere un luogo davvero unico e uguale a nessun altro. Si tratta di una spiaggia caraibica che ogni giorno è sorvolata, e quasi sfiorata, da aerei di linea in partenza e in arrivo. Il suo nome e Maho Beach, ed è davvero la baia più particolare che abbiamo mai visto.

Benvenuti a Maho Beach

Il nostro viaggio di oggi ci conduce nel cuore dei Caraibi, propio lì dove tutti gli amanti della natura possono trascorrere del tempo in totale relax immergendosi in paesaggi naturali e bellissimi. Ci troviamo a Sint Maarten, una meta che non è del tutto nuova agli amanti dei paradisi terrestri. Ogni anno, infatti, migliaia di persone scelgono di raggiungere il territorio caraibico per vivere avventure nella natura con vista mare, ma anche per frequentare la fervente scena notturna che caratterizza le città dell’isola.

Sint Maarten è raggiungibile in aereo grazie al Princess Juliana International Airport. È proprio la presenza di questo aeroporto a caratterizzare in maniera univoca una delle più particolari spiagge dell’isola e forse del mondo intero. Stiamo parlando di Maho Beach, una distesa di sabbia bianca, bagnata da un mare dalle mille sfumature di blu, che ogni giorno è attraversata da aerei in arrivo e in partenza e che viene utilizzata da molti come osservatorio del traffico nel cielo.

Maho Beach

Fonte: iStock

Maho Beach

Osservare gli aerei da una spiaggia caraibica

Alzare gli occhi al cielo e ritrovarsi a poche centinaia di metri da un aereo in movimento: una visione? No, è Maho Beach. La spiaggia, una delle più frequentate e chiacchierate dell’isola di Sint Maarten, offre un’esperienza davvero unica che non è possibile replicare in nessun’altra parte del mondo.

La lingua di sabbia bianca, infatti, separa il mare dal Princess Juliana International Airport che dista appena un centinaio di metri dalla costa. Questo vuol dire che ogni aereo in partenza, e in arrivo, sorvola a bassa quota la spiaggia, quasi sfiorandola.

Proprio questa particolarità con gli anni ha trasformato Maho Beach in un’attrazione turistica, al punto tale che attraverso un altoparlante, ogni giorno, vengono comunicati gli orari di arrivo e di partenza dei velivoli, per permettere ai viaggiatori di mettersi in posizione e di ammirare da una distanza ravvicinata gli aerei in volo.

Quando l’aereo sorvola e sfiora la spiaggia provoca un forte vento creando delle onde davvero suggestive che negli anni hanno attirato anche gli amanti del windsurf.

Maho Beach

Fonte: iStock/Joel Carillet

Maho Beach
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Il castello del “Gaudí di Grosio” è una fiaba italiana tutta da scoprire

Esiste un luogo, nel nostro Paese, dove la magia ha preso vita grazie al lavoro instancabile dell’uomo, un posto dove la realtà supera la fantasia e dove tutti, indipendentemente dall’età, possono tornare a essere bambini. Si tratta di un castello che non ha niente a che vedere con gli edifici storici e maestosi che si snodano lungo lo stivale e che si differenzia persino da quelli che abbiamo visto nelle favole più belle.

Per scoprire questo luogo incantato dobbiamo recarci a Grosio, un piccolo comune italiano di appena 4000 abitanti situato in provincia di Sondrio, in Lombardia, incastonato allo sbocco della Val Grosina. Il territorio, conosciuto ai più per la presenza del Parco delle incisioni rupestri istituito negli anni ’70 per salvaguardare il patrimonio storico, archeologico e paesaggistico di questo luogo, cela in realtà una meraviglia che in pochi conoscono.

Si tratta del castello costruito da Nicola, anche conosciuto come il Gaudí di Grosio, che ricorda per forme, colori e lineamenti l’iconica Casa Batlló realizzata dal famoso architetto catalano. Raggiungere e visitare questo monumento incredibile vi permetterà di vivere una fiaba tutta italiana. Pronti a partire?

Il castello delle fiabe in provincia di Sondrio

Il nostro viaggio di oggi ci porta a Sondrio, e più precisamente nei territori che compongono l’omonima provincia e che rappresentano il cuore della Valtellina. Proprio qui, dove ogni giorno si rifugiano migliaia di viaggiatori attratti dai paesaggi alpini, esiste un luogo di incredibile bellezza che è un unicum nel suo genere e che in pochi conoscono.

Si tratta del castello di Nicola di Cesare, un uomo che ha scelto di realizzare a Grosio il sogno di una vita, quello di realizzare una dimora fatata circondata da un parco delle meraviglie. Così è nato un capolavoro: il Giardino Roccioso di Nicola, ribattezzato, da chi lo ha ammirato, il castello del Gaudí di Grosio perché è proprio allo stile dell’architetto catalano che l’uomo si è ispirato.

Nicola, un costruttore di origini abruzzesi, è arrivato in Lombardia 50 anni fa e proprio in Valtellina ha deciso di realizzare la sua casa-monumento che oggi è diventata una vera e propria opera d’arte. Ha scavato le scale nella roccia, ha creato archi e muretti, li ha decorati sapientemente con materiali di scarto e ha arredato gli spazi con oggetti coloratissimi e unici. Un lavoro incessante che è durato 40 anni e che ha portato alla creazione di un giardino delle meraviglie che oggi corre in verticale sopra la sua casa.

Una fiaba nel cuore della Valtellina

Fonte: iStock/Cesare Ferrari

Il castello del Gaudì di GrosioUna fiaba nel cuore della Valtellina

La dimora del Gaudí di Grosio

Basta guardare le fotografie del castello del Gaudí di Grosio per capire che ci troviamo davanti a qualcosa di unico. Nicola si è ispirato per la sua dimora all’architettura catalana portando nel cuore della Valtellina un pezzo di Barcellona.

Visto da fuori questo giardino verticale, con le sue scale, i sentieri e le arcate, assomiglia in tutto e per tutto a una dimora fatata, ma l’incanto continua anche negli interni. In questi anni, infatti, il Gaudí di Grosio ha decorato sapientemente il complesso con mosaici realizzati con materiale di scarto, come pezzi di vetro di bottiglie o di fanali di auto dismesse. Ad arricchire l’intera struttura sono i dettagli più svariati, come quelle frasi che riportano i detti popolari, oppure i vasi, le sculture e i tasselli dei mosaici che corrono lungo le 207 scale abbarbicate alla montagna.

Come visitare questa dimora? Il castello del Gaudí di Grosio è situato nel cuore del paese, alla fine di via Rovaschiera, ed è ben visibile dall’esterno. Per entrare nell’edificio, invece, è necessario contattare direttamente il padrone di casa.

La dimora del Gaudí di Grosio

Fonte: iStock/Cesare Ferrari

La dimora del Gaudí di Grosio

 

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Castelli di tufo sulla Luna: questo luogo sembra un sogno

L’uomo sogna di andare sulla Luna, un desiderio questo che potrebbe trasformarsi in realtà nel giro di pochi anni. La corsa alla conquista del nostro satellite naturale, infatti, è cominciata diversi anni fa e da quel momento sono molte le persone che auspicano di poter immergersi in quel paesaggio così particolare e suggestivo che fino a questo momento abbiamo visto solo in foto.

Non tutti sanno, però, che è possibile avere un assaggio di quel panorama anche restando con i piedi per terra. Dall’altra parte del mondo, infatti, esiste un luogo che non ha nulla a che invidiare alla candida Luna. Uno specchio d’acqua sulle cui sponde la natura ha deciso di forgiare il suo più grande capolavoro.

Ci troviamo nella Contea di Mono dove sorge l’omonimo lago, uno dei più suggestivi degli Stati Uniti D’America. Proprio qui, dove castelli di tufo si innalzano verso il cielo ricreando un paesaggio lunare, è possibile ammirare uno degli scenari più incredibili del mondo intero.

California: il paesaggio lunare che sembra un sogno

Guardando le fotografie del lago di Mono viene quasi spontaneo pensare a un fotomontaggio. Le immagini che ritraggono questo luogo, infatti, sono così belle da non sembrare vere, e invece sono reali e per questo ancora più straordinarie.

Sono diversi gli avventurieri che, negli anni, si sono spinti fino a qui per toccare con mano la meraviglia di un luogo che sembra catapultare sulla Luna. Tutto merito di quelle formazioni rocciose che sovrastano l’area e che svettano verso il cielo, rendendo l’atmosfera ancora più incantata.

Questo lago è situato in California, e più precisamente nella Contea di Mono, dalla quale prende il nome. Secondo gli esperti, le origini del Mono Lake, risalgono a oltre 700.000 anni fa, a seguito dell’eruzione di antichi vulcani che hanno portato alla creazione della Long Valley Caldera.

Le sponde del lago sono occupate da numerose formazioni rocciose che si sono sedimentate nel corso degli anni e che hanno creato un paesaggio che per molti aspetti ricorda proprio quello lunare.

Il paesaggio lunare del lago di Mono

Fonte: iStock

Il paesaggio lunare del lago di Mono

Torri di tufo sulla Luna

Le formazioni sedimentarie hanno modificato in maniera univoca l’intero paesaggio conferendogli l’aspetto attuale. Lo scenario che si apre davanti allo sguardo di chi arriva fin qui è davvero surreale: sembra di trovarsi sulla superficie lunare puntellata da tante torri. In realtà, quei monumenti rocciosi, altro non sono che i depositi di carbonato di calcio che si sono accumulati nel tempo sott’acqua e che sono emersi dopo con l’abbassamento del livello del lago portando alla luce torri, colonne e agglomerati che sembrano dei veri e propri castelli.

Anche se questa zona è ancora poco battuta dal turismo di massa, vale davvero la pena raggiungerla. Le suggestioni provocate da un paesaggio unico nel suo genere sono davvero infinite. Neanche i Pink Floyd ne rimasero immuni, al punto tale da scegliere per la copertina interna dell’album Wish You Were Here una foto di Mono Lake.

Il lago fa parte del Mono Lake Tufa State Natural Reserve, una riserva naturale istituita nel 1981 dallo Stato della California per preservare le torri di tufo e il patrimonio paesaggistico e naturalistico dell’intera aerea. Il parco può essere visitato in autonomia oppure prendendo parte alle visite guidate organizzate dalla Mono Lake Committee.

Mono lake

Fonte: iStock

Mono lake
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Hashima, l’isola fantasma del Giappone

Esistono luoghi che hanno un fascino unico e particolare e uno di questi è Hashima, meglio conosciuta come Gunkanjima o “Isola della nave da guerra”,  che si staglia a quattordici chilometri al largo della città di Nagasaki.

Un’isola “misteriosa” e a tratti anche inquietante, eco di un passato ormai perduto, meta “fantasma” tra le più curiose del Giappone.

Hashima, l’ex miniera di carbone sul mare

Isola disabitata e in rovina, con 480 metri di lunghezza e 160 di larghezza, Hashima un tempo ospitava circa 5300 persone, una comunità prospera che oggi è difficile riuscire a immaginare, tra edifici fatiscenti e relitti distrutti dal maltempo e dal trascorrere degli anni.

Infatti, si tratta di un ex miniera di carbone: l’attività di estrazione mineraria iniziò sul finire dell’Ottocento e, con l’incremento della produzione, l’isola visse un periodo di espansione che rese necessari spazi residenziali per i minatori e le loro famiglie, negozi, ristoranti, scuole, bagno pubblico, un tempio e un santuario.

Tuttavia, intorno al 1974 venne rapidamente abbandonata: il fabbisogno energetico era cambiato e le miniere di carbone vennero chiuse.

Così, l’isola è rimasta a lungo in balia di sé stessa e, la continua esposizione ai tifoni, ha ulteriormente accelerato il processo di deterioramento delle strutture fino a rivestire Hashima di un’atmosfera piuttosto cupa e controversa.

Chiusa al pubblico, poteva essere scorta soltanto dalle crociere turistiche che la circumnavigavano.

Poi, dal 2009 qualcosa è cambiato: ha suscitato l’interesse di chi ama andare alla scoperta di edifici e rovine e, grazie alla costruzione di un nuovo molo per le imbarcazioni, è arrivata l’apertura al turismo con tour organizzati e visite guidate (unica modalità con cui è possibile approdare ad Hashima).

Ma non soltanto: nel 2015 è stata nominata Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

Come alba di una nuova era, i tour si svolgono più volte durante la giornata con partenza da vari punti del porto di Nagasaki: la traversata dura mezz’ora ed è importante tenere presente che può essere cancellata in caso di maltempo per cui è meglio non pianificare il viaggio nei mesi invernali, nella stagione della pioggia o in quella dei tifoni.

Conoscere Hashima senza approdare

Tappa saliente di un viaggio a Nagasaki e dintorni, Hashima può essere conosciuta da vicino anche senza mettervi piede.

Già, perché chi non desidera compiere il giro dell’isola può raggiungere l’estremità meridionale di Nagasaki e osservare con attenzione verso l’orizzonte quando la giornata è limpida: con un po’ di fortuna, non è difficile intravedere i bagliori degli edifici abbandonati e la luce che filtra attraverso le finestre.

Oppure, un’altra possibilità è visitare il Museo digitale di Gunkanjima nei pressi della chiesa di Oura (sempre a Nagasaki): un innovativo museo che consente di compiere un vero e proprio viaggio virtuale sull’isola e acquisire moltissime informazioni grazie anche a un’installazione che racconta gli aspetti concreti della vita sulla “miniera di carbone galleggiante” con fotografie e le testimonianze di chi vi ha lavorato o vi ha trascorso l’infanzia, ognuno con la propria opinione e i propri ricordi unici.

In più, non mancano tour in realtà aumentata in alcune zone dell’isola così come sono oggi e un viaggio virtuale lungo la miniera come se fosse tuttora in funzione.