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Perché è il momento di tornare in Giordania

Dallo scorso 1° marzo, la Giordania ha riaperto definitivamente le porte ai turisti internazionali, senza più restrizioni né richiesta di tamponi. E gli italiani non vedevano l’ora.

La Giordania è infatti uno dei Paesi più affascinanti del mondo, che cela ancora molti segreti, tutti da scoprire. Ci han fatto sognare le immagini dello spettacolare deserto del Wadi Rum e la bellezza mozzafiato del Wadi Araba nel colossal “Dune”, uscito nel 2021, che agli Oscar 2022 si è aggiudicato ben sei statuette, tra cui quella per la miglior fotografia e la miglior scenografia. E ci fanno strabuzzare gli occhi le numerose scoperte archeologiche che continuano a essere fatte.

Il Paese ha così messo subito a disposizione dei viaggiatori diversi voli diretti ad Amman, la Capitale. A partire dalla compagnia aerea di bandiera, la Royal Jordanian, che ha ripristinato cinque voli settimanali in partenza da Roma Fiumicino. Ryanair ha raddoppiato gli operativi settimanali da Bergamo, passando da due a quattro, e ha mantenuto i due voli settimanali da Bologna e Roma Fiumicino. Si è infine aggiunta la low cost Wizzair, con due voli settimanali da Milano Malpensa e da Roma Fiumicino. In sole tre ore si può raggiungere la Giordania da quattro città d’Italia.

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Petra, l’attrazione numero uno della Giordania

Non ci sono più scuse, dunque, per non tornare a visitare la Giordania. E, in occasione della BIT di Milano, la fiera dedicata al turismo, abbiamo incontrato il direttore marketing di VisitJordan, Ahmad al Hmoud, venuto in Italia a promuovere il nuovo volto del “regno del tempo”.

Perché gli italiani dovrebbero scegliere la Giordania per i prossimi viaggi?

“Agli italiani piacciono i viaggi culturali e dove c’è ricchezza di storia, una cosa che hanno in comune con la Giordania, siamo entrambi Mediterranei e veniamo da antiche civiltà. La Giordania è il luogo ideale dove c’è la storia nabatea e quella romana (alle porte di Amman c’è la seconda città romana meglio conservata al mondo dopo Roma, Jerash). Ma agli italiani piacciono anche il deserto del Wadi Rum, il Mar Rosso di Aqaba, il Mar Morto, Nel 2019 gli italiani rappresentavano il primo mercato d’Europa per la Giordania, e ci aspettiamo che anche per il 2022 torneremo ai numeri pre-pandemia”.

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Il deserto del Wadi Rum in Giordania

Mentre la Giordania era chiusa per i turisti italiani, cosa è successo di nuovo?

“Innanzitutto, nel 2021 abbiamo lanciato il nuovo brand “Kingdom of Time” (“regno del tempo”) per spiegare che è giunto il momento di scoprire una nuova Giordania con tante nuove attività e dare una nuova identità al Paese. Durante la pandemia abbiamo cercato di supportare l’industria del turismo e aperto nuovi hotel e altri ne stanno per aprire”.

Ci sono luoghi meno turistici rispetto a Petra che gli italiani dovrebbero visitare?

“Ora che i turisti dei Paesi vicini e da tutto il mondo stanno tornando, Petra sta tornando a riempirsi come un tempo. Naturalmente è il nostro sito principale, ma non c’è solo Petra. Ora abbiamo una nuova città sulla mappa della Giordania che si chiama Al-Salt che dall’anno scorso è Patrimonio Unesco, il sesto del Paese, un luogo unico dove scoprire la convivenza tra musulmani e cristiani dove fare esperienze autentiche (era un importante snodo commerciale tra il deserto orientale e l’Occidente durante il periodo ottomano, ndr). Ci sono ancora pochi hotel, sono soprattutto appartamenti ma non appena inizieranno ad arrivare molti turisti la situazione cambierà, anche se è molto vicina ad Amman quindi ci si può andare anche in giornata.

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Al-Salt, Patrimonio Unesco della Giordania

La Giordania fa parte anche della Terra Santa, il luogo del battesimo di Cristo si trova sul lato giordano. Abbiamo grandi piani per sviluppare questo luogo ed entro un anno e mezzo apriremo chiese e luoghi sacri per accogliere il turismo religioso.

Poi naturalmente ci sono tutte le altre attrazioni della Giordania, come il Wadi Rum. C’è chi viene in Giordania solo per stare nel deserto. C’è il Mar Morto che è una meraviglia della natura, il punto più basso della Terra dove si può galleggiare nell’acqua e rilassarsi. Qui ci sono tantissimi hotel di lusso e altri stanno per aprire. Il Mar Rosso, dove i turisti vanno per fare immersioni. E poi c’è la Capitale Amman che ha molto da offrire sia nella parte moderna sia in quella antica, è una città dove c’è molto da fare, dai ristoranti ai divertimenti ma c’è anche storia e cultura”.

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L’antica Jerash, alle porte di Amman

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Sui luoghi dei Florio, intervista all’autrice Stefania Auci

Raccontano l’epopea di una famiglia, quella dei Florio, che ha fatto la storia della Sicilia e anche dell’Italia i due romanzi di grande successo “I leoni di Sicilia” e “L’inverno dei Leoni” dell’autrice Stefania Auci.

Ma raccontano anche di una Sicilia bella e opulenta, ricca e orgogliosa, una Sicilia che ha affascinato milioni di lettori dei romanzi della Auci e che desiderano andare alla scoperta di quei luoghi narrati tra le pagine dei libri. L’Olivuzza, Favignana, Marsala, Villa Igiea e tante altre tappe che hanno dato vita a un vero e proprio itinerario, nato dalla penna della Auci e che, a breve, diventerà anche uno dei più amati della Regione perché, dopo i romanzi, arriverà anche una fiction televisiva che attirerà ancor più visitatori.

Abbiamo incontrato Stefania Auci durante la BIT, la fiera milanese del turismo, allo stand della regione Sicilia, che sta promuovendo nuovi itinerari alla scoperta della West of Sicily, la Sicilia occidentale, quella zona del trapanese – città d’origine della Auci – quella delle tonnare e delle saline, che vanno a braccetto, del marsala e della splendida isola di Favignana, raccontata nei due romanzi e ancora poco nota al turismo.

I suoi romanzi hanno una grande valenza turistica e invogliano i lettori a visitare i luoghi che racconta, ne è consapevole?

“Me ne sono resa conto poco dopo l’uscita del primo volume quando mi sono recata ad accompagnare dei giornalisti in alcuni luoghi che erano raccontati nei romanzi e la gente diceva ‘Sì, ma qui noi ci siamo stati!’. E la cosa che mi fa molto piacere è che nella Sicilia occidentale adesso esistono anche dei tour in barca che si occupano delle Egadi, della provincia di Trapani, di Marsala che mettono in luce sia la bellezza del territorio sia la storia che è legata a questo territorio, che non è legata unicamente ai Florio, ma c’è anche la trazione latina, la tradizione greca e ancora quella arabo-normanna. In generale, la Sicilia occidentale presenta più di altre parti questa grandissima stratificazione che fa sì che la sensibilità di chi vive in questi territori sia estremamente plastica, varia e capace di comprendere in più modalità quanto la storia abbia inciso sul nostro territorio. Adesso è il momento che iniziamo a prenderne atto e che cominciamo anche a essere orgogliosi di questo”.

Quelli citati nei romanzi sono luoghi che lei conosce molto bene.

“Favignana mi ha segnata e mi ha insegnato la passione per il mare. Questo territorio fa parte del mio DNA, tutta questa parte di Sicilia è impregnato di cultura, che ha segnato anche i Florio. Loro erano connessi al territorio del trapanese, che ha visto ospiti anche reali. Raccontare il territorio ha condizionato l’evoluzione di questa famiglia. Non sarebbero stati i Florio se non fossero stati un questa parte di Sicilia. Quando i Florio diventano ricchi lo fanno nella Sicilia occidentale e quindi Marsala, Trapani, Favignana”.

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Favignana e la tonnara dei Florio

Sono nati già dei tour sui luoghi dei Florio, vero?

Ci sono e sono parecchi e sono anche molto orgogliosa perché significa che, anche se in maniera indiretta, ho dato fisicamente una mano alla mia terra. Trapani ha un centro storico che è un gioiello, grazie anche a imprenditori come i Florio, che potevano chiamare i grandi artisti fiamminghi e i migliori artigiani. Favignana è il paese della ‘Bella addormentata’, tutti gli abitanti se ne erano andati via. Oggi, la tonnara dei Florio che è stata restaurata ha tegole di vetro colorato, stucchi, nursery e spogliatoi che mostrano l’intervento di grandi architetti”.

Pensa di aver raccontato anche ai non siciliani una storia che è anche un po’ quella dell’Italia?

“Ci sono moltissime microstorie di famiglie in tutta Italia per cui si può parlare della storia attraverso quella dei singoli. In Sicilia questo diventa particolarmente forte perché, più che in altre Regioni, la storia d’Italia è passata attraverso il nostro territorio. Ricordiamo che l’unità d’Italia è iniziata a Marsala. La Battaglia di Calatafimi è la battaglia fondamentale attraverso la quale la Sicilia, di fatto, la Sicilia passa nelle mani di Garibaldi. Dobbiamo renderci conto che ci sono dei territori che hanno una forza e un orgoglio che difficilmente è sovrapponibile ad altri”.

Ci sarà anche un seguito della saga dei Florio?

“Sono morti tutti, quindi non è il caso di andare oltre”.

Il tour dei Florio nella Sicilia occidentale

Benché buona parte delle vicende narrate nei romanzi “I leoni di Sicilia” e “L’inverno dei Leoni” sia ambientata a Palermo, la Sicilia occidentale gioca un ruolo chiave nell’evoluzione della storia. A partire dalla tonnara di Favignana, alle Egadi, dove è nato il tonno Florio, in uno degli stabilimenti più all’avanguardia dell’epoca che oggi è un museo e si può visitare.

Così come lo stabilimento di Marsala, a una trentina di chilometri da Trapani, dove ancora oggi si produce uno dei migliori vini liquorosi del mondo, nato per fare concorrenza al portoghese vino Madeira, molto amato dagli inglesi. I nuovi proprietari vi hanno ricavato una splendida sala degustazione e un’enoteca, tappezzata con le locandine pubblicitarie della famosa Targa Florio, la più antica corsa automobilistica al mondo e tra le più note in Italia. È rimasta tale e quale, invece, l’antica bottaia, con le botti in rovere di Slavonia. È direttamente da qui che partivano le navi della Navigazione Generale Italiana di proprietà dei Florio che portavano il loro Marsala in tutto il mondo.

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Le saline di Marsala

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Interviste Viaggi

Hervé Barmasse, dal “re” Cervino al Nanga Parbat (e ritorno)

La Valle d’Aosta è la sua casa. Tra un’ascesa e l’altra è qui che Hervé Barmasse ama tornare ogni volta. Ha viaggiato dal Pakistan (da dove è appena tornato) alla Patagonia, dal Nepal al Tibet inseguendo la sua grande passione, quella per la montagna. E la sua di montagna è il “re” Cervino, al quale ha appena dedicato un libro intitolato “Cervino – La montagna leggendaria” (ed. Rizzoli).

È il libro “definitivo” sul Cervino, un vero e proprio manuale completo, che racconta la storia delle imprese corredate da tantissime foto. Barmasse ripercorre le tappe principali dell’alpinismo sul Cervino, dalle spedizioni scientifiche alle scalate degli appassionati di oggi.

Tra un impegno e l’altro – il libro e la spedizione sul Naga Parbat, che ha dovuto temporaneamente abbandonare per via del meteo avverso –, prima che affronti nuove avventure, lo abbiamo intercettato per fargli qualche domanda.

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Hervé Barmasse al campo base in Pakistan

Hervé, quante volte sei salito sul Cervino?

“Non le ho mai contate, ma a spanne sono almeno 150 volte sicure. Il primo anno in cui ho lavorato come guida, solo con i clienti in un’estate l’ho scalato circa 15 volte, solo per darti un’idea. Gli svizzeri normalmente le contano, ma io non sono così ‘svizzero’. Diciamo che le salite più belle, quelle che ho fatto anche con i clienti e le mie ‘imprese’, sono più o meno quelle e ognuna ha un sapore diverso. Mai nulla è banale sul Cervino, ogni volta ti regala un’emozione diversa”.

Hai scalato tutte e quattro le pareti del Cervino?

“Tutte e quattro le pareti no, non l’ha fatto ancora nessuno, ma ho scalato tutte e quattro le creste in inverno e in solitaria, una cosa che non aveva mai fatto nessuno nemmeno in cordata. Io come alpinista ho sempre cercato di aprire delle vie nuove e queste si aprono dove ci sono nuove opportunità, ci sono delle pareti che non ti regalano più quell’opportunità, nemmeno la blasonata parete Nord. Chi, come me, vuole esplorare cerca di andare dove non è passato ancora nessuno.

È vero che se riesci a salire sul Cervino riesci a salire su qualunque altra montagna?

“Il Cervino è tra le 82 montagne di 4.000 metri sulle vie normali la più impegnativa. Tutti gli appassionati di montagna la lasciano sempre per ultima perché è più impegnativa. C’è gente che scala gli 8.000 e magari il Cervino non è riuscito a scalarlo”.

Cos’ha questa montagna di diverso dalle altre?

“L’incidenza di morte sul Cervino è molto alta. Se il Monte Bianco o il Monte Rosa sono delle camminate, con ramponi e picozza, qua devi proprio scalare. Chi scala il Bianco non è detto che scali il Cervino, insomma”.

Scalare il Cervino, quindi, non è per tutti. Chi può farlo e chi no?

”Devi seguire un percorso formativo, bisogna andare su preparati, accompagnato da una guida alpina per avere meno problemi. Non è una montagna impossibile, basti pensare che è stata scalata per la prima volta alla fine del 1800, ma è comunque sempre molto impegnativa e anche tutte le persone che ho portato non l’hai mai trovata così banale”.

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Vista del Cervino in Valle d’Aosta

Un semplice trekker fino a che punto del Cervino può arrivare?

“Si può arrivare fino ai rifugi che sono alla base, più in là normalmente non ci si può spingere. Però c’è stata una guida francese famosa, un personaggio emblematico del mondo della montagna, Gaston Rébuffat, nel dopoguerra, che ha scritto che qualunque cosa si faccia sul Cervino o ai suoi piedi è qualcosa che non ti lascerà indifferente e che quando tornerai a casa ti sentirai una persona cambiata, ed è quello che trovano in molti, perché è una montagna che ha un fascino particolare.

Com’è cambiata la tua attività rispetto a quando Edward Whymper scalò per primo il Cervino?

“Whymper non scalò il Cervino da solo. È diventato famoso perché ha raccontato della sua scalata, ma va ricordato che lui aveva le sue guide davanti che gli aprivano la strada e che nel 1800 le guide omaggiavano il loro cliente dandogli il merito. Un tempo lo facevano tutti. Gli va però riconosciuta la sua grande perseveranza e la grande ambizione di riuscire in un progetto che sembrava destinato ad alpinisti più capaci di lui, invece lui in pochi anni è riuscito ad accorciare le tappe di quello che faceva una persona in montagna ed è riuscito ad ottenere il risultato per la sua perseveranza e credeva in qualcosa che gli altri credevano impossibile. Oggi è cambiata soprattutto l’attrezzatura e quello che una volta era per pochi ora è per tanti. C’è più sicurezza. Gli ausili tecnologici ci garantiscono di poter progredire con una maggior percentuale di sicurezza e dico percentuale perché in montagna la sicurezza non la può garantire nessuno perché la natura non la puoi controllare.

E poi c’è conoscenza perché non solo la tecnologia è migliorata, ma noi abbiamo una cultura sulla montagna che è assolutamente più importante di quella che si aveva fino a poco tempo fa. Anche perché tra le attività chiamiamole da esploratore l’alpinismo in realtà è molto giovane come attività. Inizia alla fine del 1700 sul Monte Bianco e il mondo lo avevamo già esplorato, mancavano l’Artide e l’Antartide ma tutto il resto più o meno lo si conosceva già. La montagna allora era considerata la spazzatura del mondo, invece ora sappiamo che più del 60% delle acque del mondo provengono da territori di montagna, quindi la conoscenza della montagna è proprio cambiata”.

Come ambasciatore del Cervino e della tua regione, pensi di aver contribuito alla promozione turistica?

“Io mi sento promotore della bellezza che, per fortuna, mi accompagna nella vita, lo faccio molto di più nei confronti della Regione Valle d’Aosta, che è la regione dove abito, ma in generale della montagna. A me piace divulgare la montagna, le tradizioni e cercare di portare quello che a me regala a conoscenza degli altri. Non mi sento testimonial, ma mi piace essere promotore di qualcosa che a me regala tanto e che possa essere condiviso con le altre persone”.

Se dovessi dare dei consigli a qualcuno che desidera fare il tuo lavoro cosa gli diresti?

“Di non farlo per denaro, di essere disposto a fare dei sacrifici, come si fa in tutti i lavori, e di farsi guidare dalla passione. Bisogna capire cosa piace fare nella vita e se quello che piace fare può diventare anche un lavoro allora è una persona fortunata, come mi reputo io”.

Ci vuoi raccontare la tua avventura sul Nanga Parbat?

“L’idea è nata per cercare di essere ancora una volta esploratore. In questo caso l’esplorazione era, tra l’altro, proprio dell’essere umano, nel senso che nessuno mai ha tentato di scalare la parete Rupal d’inverno e in uno stile pulito che si chiama ‘stile alpino’, che necessita per forza di allenamenti più specifici e maggiori rischi. E dunque un’avventura che normalmente gli altri alpinisti hanno giudicato impossibile. Invece, tentare una cosa che gli altri reputano impossibile e farsi un’idea di ciò che è veramente già quello è molto appagante, al di là del risultato che poi non abbiamo conseguito. Essere un po’ esploratore dei limiti mentali e fisici dell’uomo è qualcosa di molto suggestivo e, devo essere sincero, dopo la nostra esperienza non siamo (oltre a Hervé c’erano anche David Göttler e Mike Arnold, ndr) tornati indietro delusi, siamo ancora più convinti che questa cosa si possa fare e il bello è che se si riuscisse a fare questa cosa concretamente dimostreremmo che le montagne di 8.000 metri, anche nelle condizioni più difficili, sulla parete più grande del mondo, si possono scalare in modo pulito ovvero nello stile tradizionale.

In quello himalayano normalmente vengono distese delle corde, la montagna viene scalata a pezzettini, vengono fissati i campi e poi tutto quel materiale, dalle corde alle tende, spesso viene abbandonato sulla montagna e così l’alpinista contribuisce a plastificare piano piano, La nostra ambizione è quella di cercare di raggiungere non soltanto un risultato sportivo, ma anche aprire una nuova frontiera di come si possono scalare le montagne. D’inverno è la condizione più estrema, però se si riuscisse sarebbe un grande messaggio. In questo momento noi cerchiamo di rompere degli schemi, siamo in una fase di rottura col passato però si deve passare anche attraverso questo tipo di rottura per cercare di avere qualcosa di meglio per il futuro”.

Che soluzioni avete trovato per non lasciare spazzatura sulla montagna?

“Sull’Everest vengono fissati quasi 6.000 metri corda ogni anno e quelle corde non riescono a riportarle giù e la maggior parte, come anche tende e attrezzature, vengono abbandonate. È sempre stato così e questo è lo stile tradizionale, soprattutto d’inverno. La nostra idea è quindi lo stile alpino o stile pulito ovvero noi partiamo con uno zaino da 10 chili, abbiamo la tenda, il sacco a pelo e la corda, una o due al massimo, che utilizziamo per salire o scendere dalla montagna. Dunque, quando noi partiamo tutto il materiale sale con noi e scende con noi, così la montagna rimane pulita”.

Lasciare le corde e il materiale non può però essere in qualche modo utile a chi viene dopo di te, però?

“Dipende da quello che si vuole dalla vita: se uno vuole prendere la funivia al posto che camminare… In montagna e nella tradizione dell’alpinismo non si sono mai cercate delle scorciatoie. Sicuramente l’attrezzatura tecnologica deve facilitare le cose, ma non per questo se quell’attrezzatura è fonte di inquinamento deve continuare a usarla”.

Perché hai dovuto rinunciare?

“Le probabilità di riuscire in un’impresa come questa erano forse dell’1%. Chi ci dà le previsioni del tempo ha visto l’arrivo del Jet Stream con venti che arrivano fino a 200 km orari e che quando permane in quota può rimanere anche più di un mese e quindi noi saremmo rimasti bloccati al campo base. Quando abbiamo preso la decisione eravamo molto dubbiosi perché spesso le previsioni del tempo sbagliano qua immagina là. In realtà, fino a oggi ha dimostrato di avere ragione. Avremmo dovuto decidere di quanto allungare la spedizione ovvero di un mese. Normalmente, quando il vento poi cala di solito arriva la neve e questo avrebbe reso impossibile scalare la montagna. Noi ci eravamo dati il limite del 28 febbraio e quindi abbiamo dovuto rinunciare, semplicemente per la mancanza di giornate di bel tempo”.

È stato difficile viaggiare in questo momento, visto il periodo e le restrizioni per il Covid?

“In Italia abbiamo forse le misure più restrittive. Non è stato facile per altri motivi, come la crisi afghana, quindi spesso eravamo scortati dai militari e la loro responsabilità nei nostri confronti è stata incredibile. Eravamo quasi più scrupolosi noi nei loro confronti che chi ci ha aiutato a portare il materiale al campo base, noi siamo partiti con 70 tamponi e cercavamo di farli alle persone che entravano in contatto con noi per non far rischiare nulla a loro, è stata una spedizione Covid free quindi, anche se, a differenza da altri campi base, eravamo solo noi, quindi era facilmente gestibile. E una volta che sei in montagna non si più in contatto con nessuno. Certo, a differenza dalle altre spedizioni (ho già fatto più di otto spedizioni in Pakistan) c’è stato bisogno di prendere precauzioni anche perché stare male là non sarebbe stato bello”.

In tutte le tue scalate non hai mai avuto paura?

“Altroché. La paura serve ed è quella che ti fa tornare indietro nel caso in cui le condizioni della montagna non siano buone o tu non sia preparato bene fisicamente. La paura è un termometro, un campanello d’allarme che ti aiuta a sopravvivere, per me deve sempre esserci, è quella che ti fa mettere giudizio e che ti fa provare emozioni”.

Quale insegnamento ti ha lasciato questa esperienza?

“Qualsiasi esperienza è un insegnamento”.

Hai già una data di ripartenza per provarci di nuovo?

“Il prossimo inverno è ancora lontano, ma sicuramente, a meno che non ci siano cause di forza maggiore, ci riproveremo. Da qui all’anno prossimo ci sono altri progetti, ma ci sarà tempo per parlarne. Adesso intanto vado ad allenarmi, per me è sempre un piacere. Di solito dopo una spedizione l’allenamento è un po’ più blando, però in generale lo faccio quasi tutti i giorni”.

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La spedizione sul Nanga Parbat di Hervé Barmasse con David Göttler e Mike Arnold

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Europa Interviste Irlanda Viaggi

Perché per gli italiani è arrivato il momento di tornare in Irlanda

Gli italiani adorano l’Irlanda e, con l’apertura delle frontiere al turismo, finalmente quest’anno potranno tornarci. “L’innata ospitalità irlandese, che abbiamo in comune con gli italiani, è un fattore importante”, ci ha spiegato Marcella Ercolini, nuovo direttore per l’Italia di Turismo Irlandese. “Le persone si sentono accolte e rese partecipi di ciò che succede e di quello che rende l’Irlanda ciò che è”.

E l’Irlanda, un’isola grande circa un quinto dell’Italia, è un piccolo concentrato di bellezze storiche e naturali, di luoghi e cultura unici, di feste e di gastronomia autentiche. Ci siamo fatti raccontare cosa c’è di nuovo e inedito da fare e da vedere e perché il 2022 è l’anno giusto per tornarci.

L’Irlanda non è più solo l’isola delle pecore e dei prati verdi: com’è cambiato il turismo negli ultimi anni?

“Premesso che le pecore sono il nostro orgoglio nazionale: pascoli liberi, sostenibili, animali socievoli e simpatici, è interessante osservare come il panorama turistico si sia davvero diversificato valorizzando la combinazione unica che l’Irlanda permette di vivere tra le esperienze legate alla natura e quelle legate alla cultura, intensa in senso lato, come patrimonio storico, artistico, folklorico e umano.

Tutti gli attori del nostro turismo hanno lavorato moltissimo seguendo questi due filoni e oggi la varietà di attività, eventi, strutture ricettive e food & beverage è davvero straordinaria in tutta l’isola, con moltissime iniziative costantemente in crescita anche in Irlanda del Nord.

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Il paesaggio lungo la Beara Way, nella contea di Cork

Natura, sempre al centro, sì, quindi, ma vissuta in mille modi diversi e soprattutto con attività slow a impatto ambientale minimo. Chi ama pedalare e/o camminare ha a disposizione oltre 3.000 chilometri di percorsi segnalati tra Greenways e itinerari come, per esempio, la Beara Way, nella contea di Cork, spettacolare anello circolare di oltre 200 chilometri. Di grande suggestione anche le Blueways legate ai nostri laghi e fiumi. Si possono percorrere sull’acqua, ma anche seguire a piedi, in bici o, altra attività molto praticata, a cavallo. Il governo ha già stanziato 19 milioni di investimenti in infrastrutture per sport outdoor acquatici, tra cui accessi per disabili, spogliatoi, armadietti per mettere al sicuro abiti e oggetti, ecc. con pratiche sostenibili (“Nearly Zero Energy building Standards”), e la prima tranche di lavori dovrebbe completarsi per l’estate 2022. Di qualche settimana fa l’annuncio dello stanziamento di ulteriori 15 milioni di investimento per lo sviluppo del “soft adventure tourism”, con infrastrutture per hiking, mountaineering, kayaking, swimming e cycling a tutti i livelli.

Natura e cultura insieme si trovano per esempio nelle nostre eccellenze gastronomiche. La varietà dell’offerta sta vivendo un vero e proprio momento magico, soprattutto per il largo uso di prodotti locali, coltivati o ottenuti in armonia con l’ambiente. Il formaggio si sta mettendo in evidenza in tutto il mondo, così come i nostri whiskey, gin e vodka, che vincono competizioni internazionali. Per non parlare della birra: un grande marchio come Guinness usa orzo e acqua “Irish”, di qualità eccelsa, così come le piccole realtà. Sia distillerie che birrifici offrono percorsi di scoperta davvero interessanti, con un’accoglienza calorosa e percorsi di degustazione e di assaggio guidati.

I nostri chef con grande ricerca e creatività hanno conquistato e, in alcuni casi, riconfermato anche quest’anno le tanto ambite stelle Michelin: attualmente, ne abbiamo ben 21 (18 nella Repubblica d’Irlanda e 3 in Irlanda del Nord) in un territorio non particolarmente grande, e 3 sono green, in luoghi anche ad alto tasso paesaggistico, per esempio, come l’Inis Meáin Restaurant & Suites, in una delle isole Aran. La vista dalla sala è a dir poco poetica.

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Una spiaggia sull’isola di Inisheer, alle Aran

Tornando alla cultura in senso stretto, l’offerta museale è davvero varia e adatta a tutti. Tra gli ultimi nati abbiamo il MoLI di Dublino, il museo dedicato alla letteratura, che cito anche perché nel 2022 festeggeremo i 100 anni dalla pubblicazione dell’”Ulisse” di Joyce con moltissimi eventi. Veri e propri musei a cielo aperto sono, poi, i siti Unesco: luoghi forgiati dalla natura come le colonne basaltiche della Giant’s Causeway, in Irlanda del Nord, o dall’uomo, come l’imponente sito archeologico Brú na Bóinne, costruito prima delle piramidi di Giza. Insomma, ce n’è davvero per tutto i gusti.

Nel 2022 avremo anche il 125° anniversario di “Dracula” di Bram Stoker, il 110° dell’affondamento del Titanic, partito da Belfast nel 1912, e a febbraio aprirà i battenti un’attrazione incredibile come i Game of Thrones Studio Tour a Belfast, che mette insieme location originali, oggetti di scena e outfit, con esperienze immersive, negli studi dove è stata girata parte della serie.

Il museo del titanic a Belfast

Il museo del titanic a Belfast

Quando si va in Irlanda poi, bisogna tenere conto che ci sarà un festival da qualche parte, vero patrimonio culturale irlandese, a partire dal festival di San Patrizio o da quello dedicato alla musica tradizionale, il TradFest, a quelli per le celebrazioni di Bloomsday e Halloween. Senza dimenticare le manifestazioni incentrate sul cibo come a Taste of West Cork Food Festival.

Merita un cenno, inoltre, la nostra proposta “upscale” da vivere in location magnifiche come castelli e dimore storiche, associati spesso a campi da golf panoramici e di prestigio mondiale (nel 2027 torna in Irlanda la Ryder Cup, la manifestazione di golf più importante), o templi dell’hôtellerie a 5 stelle quali The Shelbourne a Dublino, da oltre 200 anni luogo di riferimento di tutto ciò che accade in città. E poi, i nuovi scenari architettonici che disegnano bellissimi panorami iper-contemporanei come la riqualificata zona dei vecchi Docks del porto di Dublino, da vivere e visitare assolutamente per vedere un’Irlanda con gli occhi splendidamente aperti sul futuro.

Quindi, possiamo davvero dire che, tra investimenti ed eventi, ci aspetta un 2022 super intenso e pieno di cose belle”.

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Il Museo dell’emigrazione irlandese (Epic) nella zona dei Docks a Dublino

Cosa cambierà in Irlanda a causa della situazione pandemica?

“Come accennato, anche per venire incontro a nuovi stili di vita e comportamenti post pandemia, lavoreremo per valorizzare tutto quello che si può fare all’aria aperta, visto che abbiamo scenari incredibili di terra e di mare, piccoli centri urbani e villaggi che, se equipaggiati, si prestano benissimo ad amare ancora di più lo stare outdoor. Oltre agli investimenti citati per le attività da vivere all’aperto, altri 19 milioni, poi, andranno proprio a migliorare gli spazi outdoor di ristorazione, bar e hotel, che da noi erano prima della pandemia vissuti più al chiuso, anche per motivi climatici.

Abbiamo capito, quindi, come emerge sempre più da studi specifici, che la prevenzione passa anche da ciò che è strutturale e non solo dal comportamento delle persone e ci stiamo attrezzando al meglio. In questo senso andrà, inoltre, la valorizzazione di tutto il territorio, percorso legato anche alla sostenibilità sociale, avviato già prima del Covid-19. Il senso è quello di non concentrare i flussi solo in alcune aree e far sì che i benefici del turismo siano veramente diffusi in tutte le nostre contee: ci sono, non esagero, milioni di cose da scoprire, vivere e apprezzare.

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Il Lough Tay nella Contea di Wicklow in Irlanda

“Soft adventure”, ma anche cose divertenti come osservare i cani da pastore al lavoro in Irlanda del Nord o, sempre, in Irlanda del Nord, vedere da vicino un’azienda agricola di tipo familiare che produce sidro. Per non parlare di aree vicine a Dublino, come le Wicklow Mountains in cui ci sono luoghi incantevoli quali la storica tenuta di Powerscourt con giardini tra i top 10 del mondo o il nostro Far West con aree come la Dingle Peninsula, un lembo di terra fieramente lanciato verso l’Atlantico, ideale per vivere il mare, la gastronomia o la bici: c’è pure il Conor Pass, il più alto d’Irlanda, anche se è alto “solo” 500 metri. Per non parlare dei moltissimi punti senza inquinamento luminoso, strutturati per ammirare il firmamento e vedere l’aurora boreale, o la rete di fari in cui si può anche dormire.

La parola chiave è quindi outdoor, inteso non come lo stare “solo” all’aperto, bensì come una rete strutturata e organizzata di opportunità per vivere la natura, anche selvaggia, da protagonisti”.

Quali forze ha introdotto l’Irlanda per stimolare il ritorno dei turisti?

“Il nostro governo crede nel turismo e nella ripresa e una prova tangibile sono gli investimenti messi in campo per le infrastrutture, le misure a sostegno agli operatori e le strategie di comunicazione su scala internazionale.

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Il castello di Minard nella Penisola di Dingle

Nel 2021 abbiamo attivato diverse campagne e per il prossimo anno stiamo lavorando a nuove iniziative, tra cui un’edizione speciale del Global Greening, in cui per San Patrizio illuminiamo di verde siti e monumenti in tutto il mondo, evento che ha assunto una bellissima valenza di segno di vicinanza tra Paesi diversi e non solo legato all’amicizia nei confronti dell’Irlanda.

Il racconto di quello che siamo e di quello che possiamo condividere con chi ci sceglie per le vacanze è un veicolo di attrazione molto forte, anche perché coinvolge chi ama l’Irlanda e ha voglia di testimoniarlo. Una delle cose belle nel periodo problematico della pandemia è stata proprio la dimostrazione di grande affetto per la destinazione da parte di chi conosce l’Irlanda perché l’ha visitata per turismo. Anche grazie a questo calore, mentre lavoravamo da remoto, con l’impossibilità di accogliere i turisti, ci siamo sentiti meno soli.

Lavoreremo, quindi, su tre fronti: ulteriore diversificazione e valorizzazione delle esperienze in ambiti differenti, potenziamento infrastrutture, comunicazione e promozione attraverso canali diversi che includono anche l’organizzazione di eventi come quelli che abbiamo in programma, in Italia, per la settimana di San Patrizio e gli anniversari legati a Joyce, Dracula e Titanic. Per gli operatori di settore, poi, stiamo stiamo preparando webinar, programmi di formazione e workshop, oltre, naturalmente, alla ripresa di fam trip”.

Ci sono dei luoghi in Irlanda poco conosciuti che consiglia di visitare?

“Una zona che è sicuramente tra le meno note ai flussi turistico sono le “Hidden Heartlands”, il cuore verde e blu d’Irlanda, per la sua natura rigogliosa e i corsi d’acqua navigabili e i laghi, con addirittura passerelle sull’acqua come quella di Drumshanbo, nella contea di Leitrim (la meno popolosa d’Irlanda), dove passa l’omonima Blueway. L’area delle “Hidden Heartlands” si estende da, appunto, Leitrim fino a East Clare e abbraccia anche le contee di Longford, Roscommon, East Galway, nonché parti di Westmeath, Cavan, North Tipperary e Offaly.

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Cloughoughter Castle nell’Hidden Heartlands

Tra le esperienze da provare, ad esempio, ci sono le crociere sul fiume Shannon, che talvolta uniscono degustazioni, come quella che si può fare con il gin, e navigazione. Si possono noleggiare barche sulle quali dormire o fare anche sport attivi come il SUP, la canoa e il kayak (anche notturno).

Per trekker e biker, da percorrere assolutamente è la Beara Breifne Way, che si estende per ben 500 chilometri. Ma il cuore verde non è solo natura è anche cultura e magia con luoghi come l’antico monastero di Clonmacnoise, la cui fondazione risale al VI secolo, e gastronomia di eccellenza in luoghi raffinati come, per fare un esempio, il ristorante Thyme ad Athlone, cittadina davvero piacevole, nonché punto centrale geografico dell’isola, attraversata dal fiume Shannon e, pertanto, da sempre, fortemente strategica. Nasconde anche chicche come quello che sembra essere il bar più antico d’Irlanda, lo Sean’s, sulla riva sinistra del fiume.

Un’altra zona poco frequentata dai viaggiatori italiani, ma di una bellezza che definirei commovente sono le Mourne Mountains, in Irlanda del Nord, nella contea di Down: trekking, mountain bike, rock climbing o semplice contemplazione del paesaggio le attività per cui sono perfette. E, sempre in Irlanda del Nord, per chi desidera vedere una città in grandissimo fermento, da non mancare assolutamente, è Belfast da poco proclamata Music City Unesco e città tra le top 20 sostenibili del mondo. È vero, in assoluto, non è poco conosciuta, ma ci sono moltissime cose che può offrire non ancora scoperte e in continua evoluzione”.

Selciato del gigante

Giant’s Causeway, in Irlanda del Nord

Gli italiani scalpitano per poter tornare in Irlanda: come spiega questo successo?

“L’innata ospitalità irlandese, che abbiamo in comune con gli italiani, è un fattore importante. Davvero, non è un luogo comune. Le persone si sentono accolte e rese partecipi di ciò che succede e di quello che rende l’Irlanda ciò che è: una terra di frontiera, dove la frontiera più estrema è l’oceano, ma al tempo stesso caratterizzata da un ampio e prezioso patrimonio storico, culturale e umano, che crea un mix di grande fascino e un equilibrio unico tra antiche radici e dinamico orientamento verso il futuro.

Questo piace molto ai viaggiatori italiani che sono interessanti a scoprire attivamente ed empaticamente la cultura dei posti che visitano, immergendosi nei modi di vivere local. Gli irlandesi, popolo fiero e orgoglioso, per molte ragioni, storiche, identitarie e geografiche, sentono l’approccio degli italiani e lo amano immediatamente, rendendo ancora più rapido il potere dell’Irlanda di arrivare dritta al cuore”.