Immaginate un padre e un figlio in viaggio sulle tracce di una città-utopia costruita nel 1970 nel deserto dell’Arizona da un architetto italiano. Non è la trama di un road movie di fantascienza, ma un regalo di compleanno che diventa il cuore pulsante del documentario Ask the Sand – Can we change the future?, scritto e diretto da Vittorio Bongiorno.
Presentato in anteprima mondiale al Biografilm 2023, ora questa avventura alla ricerca di Arcosanti è disponibile su NowTv. L’architetto Paolo Soleri, allievo di Frank Lloyd Wright, aveva l’idea di una città del futuro un po’ come il protagonista dell’ultimo film di Francis Ford Coppola Megalopolis interpretato da Adam Driver. Nel cuore del deserto americano sorge ancora oggi questo luogo sospeso tra ambizione e sogno che il regista ha visitato con il figlio poco prima della pandemia di Covid-19.
Viaggiando tra la polvere del deserto, i due hanno trascorso una settimana in questo luogo dimenticato, raccogliendo i racconti di professionisti e artisti che hanno conosciuto Soleri e di chi vive ancora oggi in quella città-utopia. Fin dalla sua anteprima italiana Ask the Sand non si è mai fermato ed è stato proiettato anche oltreoceano a Tucson, Dallas e nella stessa Arcosanti.
Il 20 e 21 Novembre Bongiorno è stato invitato dall’ordine degli architetti di Napoli e Brescia per presentare il documentario in due festival di architettura. Inoltre lui e suo figlio sono stati invitati alla Farm Cultural Park, un centro culturale in Sicilia a Favara, a due passi da Agrigento, dove hanno curato un padiglione di Countless Cities, la biennale delle città del futuro. Si può visitare facendo un percorso espositivo con foto, video e scritti dal loro viaggio. Tutte le informazioni sul sito http://www.countlesscities.com.
Sulle note delle musiche originali di Giulio e Vittorio Bongiorno, i Calexico, Joachim Cooder e Naim Amor & John Convertino, Ask the Sand è la testimonianza sincera e coinvolgente di un viaggio che unisce architettura, storia, arte, il fascino dell’America del sud e un rapporto padre-figlio complice e forte, ma pronto ad allentare la presa per un futuro più indipendente.
Come nasce il tuo legame con l’America?
Il blues e il jazz sono stati la colonna sonora della prima parte della mia vita. Il mio bisnonno è scappato dalla Sicilia nel 1907 e ha vissuto negli Stati Uniti cambiando nome, e ha mandato alla famiglia i dischi di jazz e blues, e delle pistole da cowboy a mio padre. Ci ho scritto un romanzo ancora incompiuto, questo per dire che ho un legame con l’America da sempre. Nel 2013 sono partito sulle orme care del mio bisnonno e ho trovato qualcosa, anche se lui aveva lavorato molto per far perdere le sue tracce. Da lì in poi ho continuato a viaggiare per l’America e questo viaggio di Ask the Sand lo abbiamo fatto all’avventura, senza troppe aspettative.
Come è nata l’idea?
Non ho voluto imporre niente a mio figlio, mi sembrava assurdo a 18 anni rovinare un’esperienza genuina. L’ho sempre lasciato libero di fare le sue scelte, lui ha il suo mondo di riferimento, ma se deve scegliere tra Bob Dylan e i Maneskin c’è poco da scegliere. All’epoca gli avevo detto che per il compleanno dei 18 anni gli avrei regalato un biglietto circolare per andare in giro per il mondo, ma lui mi ha detto che voleva andarci con me.
Quindi da questa contrattazione è nata l’idea di fare un viaggio più rischioso, piuttosto che tornare a New York dove eravamo già stati. Io amo che ci sia sempre un po’ di rischio in tutto quello che faccio, che si tratti di un libro, di un film… Mi piace che ci sia un margine di errore. Quindi gli ho proposto questo viaggio, visto che avrebbe studiato architettura, e a lui è piaciuta l’idea. Quindi ho voluto raccontare il suo punto di vista, poi il mio l’ho raccontato nel libro La Ballata del Deserto.
Come vi siete preparati per questo viaggio?
L’itinerario che abbiamo organizzato prevedeva i primi tre giorni a Los Angeles, poi siamo andati ad Arcosanti una settimana con appuntamenti fissati con vari personaggi. Arcosanti è a 110 km da Phoenix in mezzo al deserto e non è semplicissima da trovare.
La mattina che siamo partiti da Los Angeles siamo arrivati la sera tardi, quindi siamo partiti a maniche corte e siamo arrivati lì che si gelava dal freddo. Era tutto chiuso e un’artista italiana ci ha dato le chiavi del nostro appartamento dicendoci che era giù nel canyon. Nel raggio di 100 km non c’era niente, non abbiamo nemmeno potuto mangiare qualcosa e siamo andati a dormire.
I locali sono stati felici di avervi lì o erano diffidenti?
La fondazione Cosanti ci ha accolto molto calorosamente, con Giulio si sono comportati come se fosse un nipote e ci hanno aperto questi archivi ancora quasi non catalogati, pertanto abbiamo avuto accesso a materiale straordinario. I filmati li ho comprati, ma le foto e i libroni che si vedono nel doc ce li hanno dati loro. Poi devo ringraziare Angelina Gentilini per lo stupendo lavoro di montaggio perché è riuscita ad armonizzare le varie nature del film e l’operatore Nicola Cavalazzi che ha viaggiato con noi.
Ci ha colpiti, tuttavia, il fatto che non ci hanno fatto entrare nelle loro residenze. Abbiamo percepito quasi una sorta di patto: la storia esterna di Arcosanti è quella, ma la storia personale di coloro che vivono lì non hanno nemmeno niente a che fare con Soleri, molti di loro non lo hanno mai incontrato. Noi li abbiamo provocati con la storia dell’utopia, e loro hanno risposto così. Dal 1970 a oggi questa città non si è mai fermata.
Come vivono i residenti di Arcosanti oggi?
Vendono le campane di bronzo e ceramica, fanno dei tour guidati con le scuole e dei workshop. Ricevono alcune donazioni da privati e chi passa lascia qualcosa, però vivono. Non è un centro sociale. “Io ho costruito lo strumento, ma la musica la decidono loro” diceva Soleri, una cosa molto democratica secondo me. Non volevo fare un doc sull’architettura in fondo e così è venuto fuori questo racconto.
Si dice che Arcosanti sia fonte di ispirazione per Star Wars…
Non c’è un documento vero e proprio che lo attesti, ma gli abitanti di Arcosanti dicono che George Lucas sia stato lì. Vedendo quelle forme però sembra chiaro il riferimento per Tatooine.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza una volta tornato a casa?
Un’esperienza simile ti lascia un bottino importante, è come tornare con la sabbia in tasca. Il viaggio di ritorno è stato avvolto dal silenzio per elaborare tutto quello che avevamo visto e vissuto. Poi c’è stato il buco nero della pandemia che ha diviso le nostre strade. Quando sono tornato avevo l’80% del documentario già girato, ma poi si è fermato tutto quindi trovare anche i finanziamenti è stata dura, ci ho messo due anni. Le difficoltà sono venute dopo insomma. Tuttavia con questo progetto mi sono staccato da mio figlio facendo una cosa che rimarrà immortale ed è una specie di miracolo, perché quando ho iniziato il viaggio non pensavo una cosa simile. Possiamo vivere lontani ma rimanere uniti.
Cosa ti affascina del deserto?
L’orizzonte sconfinato, questa linea sfocata dove tutto è possibile mi affascina. Forse anche perché sono siciliano, ma ho visitato vari deserti degli Stati Uniti. Nel Joshua Tree nel 2013, in un ranch isolato, ho incontrato Ry Cooder che suonava con suo figlio, l’ho salutato e il figlio mi ha dato le musiche per la prima parte del film ed è lo stesso che stava nel sidecar in Buona Vista Social Club. La possibilità del deserto dove puoi girare con una libertà che non ti è concessa magari a New York. New York è stata la mia prima città americana, ma da quando ho scoperto il Sud non ci torno spesso a New York.
Com’è il tuo rapporto con il cinema, vista la tua passione per l’America?
Il mio immaginario del cinema americano sono David Lynch e Wim Wenders. Paris, Texas mi ha forgiato per come costruisco le immagini. Il documentario l’ho girato come fosse un film, senza le interviste piazzate, con una voce fuoricampo. Nel 2017 ho fatto il documentario in Texas, a Austin e mi sono immerso in questa cultura bianca venendo dal blues nero. Il country di Johnny Cash è l’immaginario che mi sono tatuato nell’anima.
Capisco che può sembrare un po’ fasullo per un italiano, ma io appena posso scappo e vado là. In Italia è un immaginario travisato perché sono mondi molto diversi, ma ho vissuto a casa di meccanici, operai, guidatori di truck, gente che ha votato anche Trump, che gira armata, ma la working class se vuoi capire l’America è importante. In tre anni di pollo fritto a Detroit, ho vissuto un pezzo di America molto diversa da quelle che vediamo nei film.
Il documentario in alcuni momenti affronta anche il tema della sostenibilità e del consumismo in modo quasi indiretto.
Lì si riscaldano con il sole e si raffreddano con l’aria. Noi abbiamo la luce, il sole e il vento. Abbiamo davvero bisogno di tenere la temperatura delle nostre case a dieci gradi d’estate? A me sembra folle e non ho il condizionatore, non per fare Captain Fantastic (un film che mi ha colpito molto), ma mi sembra folle usarlo quando poi ci lamentiamo che il mondo va a fuoco. Gli americani sono i primi, io quando sono lì gli spengo le luci, i condizionatori.
La musica?
Ho usato le musiche di Calexico e di Joaquim Cooder. I Calexico li ascolto da trent’anni e quando li ho contattati mandandogli del girato con alcune loro canzoni gli è piaciuto molto e mi hanno aiutato anche nella contrattazione con le case discografiche. Loro sono molto attenti all’ambiente, il musicista vive a El Paso e vivono molto la frontiera.