La Valle d’Aosta è la sua casa. Tra un’ascesa e l’altra è qui che Hervé Barmasse ama tornare ogni volta. Ha viaggiato dal Pakistan (da dove è appena tornato) alla Patagonia, dal Nepal al Tibet inseguendo la sua grande passione, quella per la montagna. E la sua di montagna è il “re” Cervino, al quale ha appena dedicato un libro intitolato “Cervino – La montagna leggendaria” (ed. Rizzoli).
È il libro “definitivo” sul Cervino, un vero e proprio manuale completo, che racconta la storia delle imprese corredate da tantissime foto. Barmasse ripercorre le tappe principali dell’alpinismo sul Cervino, dalle spedizioni scientifiche alle scalate degli appassionati di oggi.
Tra un impegno e l’altro – il libro e la spedizione sul Naga Parbat, che ha dovuto temporaneamente abbandonare per via del meteo avverso –, prima che affronti nuove avventure, lo abbiamo intercettato per fargli qualche domanda.
Hervé, quante volte sei salito sul Cervino?
“Non le ho mai contate, ma a spanne sono almeno 150 volte sicure. Il primo anno in cui ho lavorato come guida, solo con i clienti in un’estate l’ho scalato circa 15 volte, solo per darti un’idea. Gli svizzeri normalmente le contano, ma io non sono così ‘svizzero’. Diciamo che le salite più belle, quelle che ho fatto anche con i clienti e le mie ‘imprese’, sono più o meno quelle e ognuna ha un sapore diverso. Mai nulla è banale sul Cervino, ogni volta ti regala un’emozione diversa”.
Hai scalato tutte e quattro le pareti del Cervino?
“Tutte e quattro le pareti no, non l’ha fatto ancora nessuno, ma ho scalato tutte e quattro le creste in inverno e in solitaria, una cosa che non aveva mai fatto nessuno nemmeno in cordata. Io come alpinista ho sempre cercato di aprire delle vie nuove e queste si aprono dove ci sono nuove opportunità, ci sono delle pareti che non ti regalano più quell’opportunità, nemmeno la blasonata parete Nord. Chi, come me, vuole esplorare cerca di andare dove non è passato ancora nessuno”.
È vero che se riesci a salire sul Cervino riesci a salire su qualunque altra montagna?
“Il Cervino è tra le 82 montagne di 4.000 metri sulle vie normali la più impegnativa. Tutti gli appassionati di montagna la lasciano sempre per ultima perché è più impegnativa. C’è gente che scala gli 8.000 e magari il Cervino non è riuscito a scalarlo”.
Cos’ha questa montagna di diverso dalle altre?
“L’incidenza di morte sul Cervino è molto alta. Se il Monte Bianco o il Monte Rosa sono delle camminate, con ramponi e picozza, qua devi proprio scalare. Chi scala il Bianco non è detto che scali il Cervino, insomma”.
Scalare il Cervino, quindi, non è per tutti. Chi può farlo e chi no?
”Devi seguire un percorso formativo, bisogna andare su preparati, accompagnato da una guida alpina per avere meno problemi. Non è una montagna impossibile, basti pensare che è stata scalata per la prima volta alla fine del 1800, ma è comunque sempre molto impegnativa e anche tutte le persone che ho portato non l’hai mai trovata così banale”.
Un semplice trekker fino a che punto del Cervino può arrivare?
“Si può arrivare fino ai rifugi che sono alla base, più in là normalmente non ci si può spingere. Però c’è stata una guida francese famosa, un personaggio emblematico del mondo della montagna, Gaston Rébuffat, nel dopoguerra, che ha scritto che qualunque cosa si faccia sul Cervino o ai suoi piedi è qualcosa che non ti lascerà indifferente e che quando tornerai a casa ti sentirai una persona cambiata, ed è quello che trovano in molti, perché è una montagna che ha un fascino particolare”.
Com’è cambiata la tua attività rispetto a quando Edward Whymper scalò per primo il Cervino?
“Whymper non scalò il Cervino da solo. È diventato famoso perché ha raccontato della sua scalata, ma va ricordato che lui aveva le sue guide davanti che gli aprivano la strada e che nel 1800 le guide omaggiavano il loro cliente dandogli il merito. Un tempo lo facevano tutti. Gli va però riconosciuta la sua grande perseveranza e la grande ambizione di riuscire in un progetto che sembrava destinato ad alpinisti più capaci di lui, invece lui in pochi anni è riuscito ad accorciare le tappe di quello che faceva una persona in montagna ed è riuscito ad ottenere il risultato per la sua perseveranza e credeva in qualcosa che gli altri credevano impossibile. Oggi è cambiata soprattutto l’attrezzatura e quello che una volta era per pochi ora è per tanti. C’è più sicurezza. Gli ausili tecnologici ci garantiscono di poter progredire con una maggior percentuale di sicurezza e dico percentuale perché in montagna la sicurezza non la può garantire nessuno perché la natura non la puoi controllare.
E poi c’è conoscenza perché non solo la tecnologia è migliorata, ma noi abbiamo una cultura sulla montagna che è assolutamente più importante di quella che si aveva fino a poco tempo fa. Anche perché tra le attività chiamiamole da esploratore l’alpinismo in realtà è molto giovane come attività. Inizia alla fine del 1700 sul Monte Bianco e il mondo lo avevamo già esplorato, mancavano l’Artide e l’Antartide ma tutto il resto più o meno lo si conosceva già. La montagna allora era considerata la spazzatura del mondo, invece ora sappiamo che più del 60% delle acque del mondo provengono da territori di montagna, quindi la conoscenza della montagna è proprio cambiata”.
Come ambasciatore del Cervino e della tua regione, pensi di aver contribuito alla promozione turistica?
“Io mi sento promotore della bellezza che, per fortuna, mi accompagna nella vita, lo faccio molto di più nei confronti della Regione Valle d’Aosta, che è la regione dove abito, ma in generale della montagna. A me piace divulgare la montagna, le tradizioni e cercare di portare quello che a me regala a conoscenza degli altri. Non mi sento testimonial, ma mi piace essere promotore di qualcosa che a me regala tanto e che possa essere condiviso con le altre persone”.
Se dovessi dare dei consigli a qualcuno che desidera fare il tuo lavoro cosa gli diresti?
“Di non farlo per denaro, di essere disposto a fare dei sacrifici, come si fa in tutti i lavori, e di farsi guidare dalla passione. Bisogna capire cosa piace fare nella vita e se quello che piace fare può diventare anche un lavoro allora è una persona fortunata, come mi reputo io”.
Ci vuoi raccontare la tua avventura sul Nanga Parbat?
“L’idea è nata per cercare di essere ancora una volta esploratore. In questo caso l’esplorazione era, tra l’altro, proprio dell’essere umano, nel senso che nessuno mai ha tentato di scalare la parete Rupal d’inverno e in uno stile pulito che si chiama ‘stile alpino’, che necessita per forza di allenamenti più specifici e maggiori rischi. E dunque un’avventura che normalmente gli altri alpinisti hanno giudicato impossibile. Invece, tentare una cosa che gli altri reputano impossibile e farsi un’idea di ciò che è veramente già quello è molto appagante, al di là del risultato che poi non abbiamo conseguito. Essere un po’ esploratore dei limiti mentali e fisici dell’uomo è qualcosa di molto suggestivo e, devo essere sincero, dopo la nostra esperienza non siamo (oltre a Hervé c’erano anche David Göttler e Mike Arnold, ndr) tornati indietro delusi, siamo ancora più convinti che questa cosa si possa fare e il bello è che se si riuscisse a fare questa cosa concretamente dimostreremmo che le montagne di 8.000 metri, anche nelle condizioni più difficili, sulla parete più grande del mondo, si possono scalare in modo pulito ovvero nello stile tradizionale.
In quello himalayano normalmente vengono distese delle corde, la montagna viene scalata a pezzettini, vengono fissati i campi e poi tutto quel materiale, dalle corde alle tende, spesso viene abbandonato sulla montagna e così l’alpinista contribuisce a plastificare piano piano, La nostra ambizione è quella di cercare di raggiungere non soltanto un risultato sportivo, ma anche aprire una nuova frontiera di come si possono scalare le montagne. D’inverno è la condizione più estrema, però se si riuscisse sarebbe un grande messaggio. In questo momento noi cerchiamo di rompere degli schemi, siamo in una fase di rottura col passato però si deve passare anche attraverso questo tipo di rottura per cercare di avere qualcosa di meglio per il futuro”.
Che soluzioni avete trovato per non lasciare spazzatura sulla montagna?
“Sull’Everest vengono fissati quasi 6.000 metri corda ogni anno e quelle corde non riescono a riportarle giù e la maggior parte, come anche tende e attrezzature, vengono abbandonate. È sempre stato così e questo è lo stile tradizionale, soprattutto d’inverno. La nostra idea è quindi lo stile alpino o stile pulito ovvero noi partiamo con uno zaino da 10 chili, abbiamo la tenda, il sacco a pelo e la corda, una o due al massimo, che utilizziamo per salire o scendere dalla montagna. Dunque, quando noi partiamo tutto il materiale sale con noi e scende con noi, così la montagna rimane pulita”.
Lasciare le corde e il materiale non può però essere in qualche modo utile a chi viene dopo di te, però?
“Dipende da quello che si vuole dalla vita: se uno vuole prendere la funivia al posto che camminare… In montagna e nella tradizione dell’alpinismo non si sono mai cercate delle scorciatoie. Sicuramente l’attrezzatura tecnologica deve facilitare le cose, ma non per questo se quell’attrezzatura è fonte di inquinamento deve continuare a usarla”.
Perché hai dovuto rinunciare?
“Le probabilità di riuscire in un’impresa come questa erano forse dell’1%. Chi ci dà le previsioni del tempo ha visto l’arrivo del Jet Stream con venti che arrivano fino a 200 km orari e che quando permane in quota può rimanere anche più di un mese e quindi noi saremmo rimasti bloccati al campo base. Quando abbiamo preso la decisione eravamo molto dubbiosi perché spesso le previsioni del tempo sbagliano qua immagina là. In realtà, fino a oggi ha dimostrato di avere ragione. Avremmo dovuto decidere di quanto allungare la spedizione ovvero di un mese. Normalmente, quando il vento poi cala di solito arriva la neve e questo avrebbe reso impossibile scalare la montagna. Noi ci eravamo dati il limite del 28 febbraio e quindi abbiamo dovuto rinunciare, semplicemente per la mancanza di giornate di bel tempo”.
È stato difficile viaggiare in questo momento, visto il periodo e le restrizioni per il Covid?
“In Italia abbiamo forse le misure più restrittive. Non è stato facile per altri motivi, come la crisi afghana, quindi spesso eravamo scortati dai militari e la loro responsabilità nei nostri confronti è stata incredibile. Eravamo quasi più scrupolosi noi nei loro confronti che chi ci ha aiutato a portare il materiale al campo base, noi siamo partiti con 70 tamponi e cercavamo di farli alle persone che entravano in contatto con noi per non far rischiare nulla a loro, è stata una spedizione Covid free quindi, anche se, a differenza da altri campi base, eravamo solo noi, quindi era facilmente gestibile. E una volta che sei in montagna non si più in contatto con nessuno. Certo, a differenza dalle altre spedizioni (ho già fatto più di otto spedizioni in Pakistan) c’è stato bisogno di prendere precauzioni anche perché stare male là non sarebbe stato bello”.
In tutte le tue scalate non hai mai avuto paura?
“Altroché. La paura serve ed è quella che ti fa tornare indietro nel caso in cui le condizioni della montagna non siano buone o tu non sia preparato bene fisicamente. La paura è un termometro, un campanello d’allarme che ti aiuta a sopravvivere, per me deve sempre esserci, è quella che ti fa mettere giudizio e che ti fa provare emozioni”.
Quale insegnamento ti ha lasciato questa esperienza?
“Qualsiasi esperienza è un insegnamento”.
Hai già una data di ripartenza per provarci di nuovo?
“Il prossimo inverno è ancora lontano, ma sicuramente, a meno che non ci siano cause di forza maggiore, ci riproveremo. Da qui all’anno prossimo ci sono altri progetti, ma ci sarà tempo per parlarne. Adesso intanto vado ad allenarmi, per me è sempre un piacere. Di solito dopo una spedizione l’allenamento è un po’ più blando, però in generale lo faccio quasi tutti i giorni”.